La spesa come resistenza
Resistenza al freezer e ai prodotti congelati. Al sottovuoto, al conservato e all’inscatolato. Alla tecnologia, laddove non sia strettamente necessaria e funzionale alla trasformazione sublimante di una materia prima.
di Luca Farinotti
Un topolino ghignante con un basco marrone sulla testa si alza dalla sua seggiolina di paglia gialla e corre a squittire nel mio orecchio.
“Vattene via!” penso.
Vorrei urlare ma riesco soltanto a esalare un filo d’aria. Allora lui ride e gli si allungano i baffi.
“Dobbiamo andare! – mi urla – dobbiamo andare al mercato! Svegliati!”.
“Svegliati Luca!”.
Apro gli occhi. La mia sorellina mi sta sconquassando le spalle, urlante. “Dobbiamo andare!” ripete.
“È ancora buio fuori…” mentre le indico la finestra.
“Sì… dobbiamo… dobbiamo andare” mi fa lei. Simula una tregua fermandosi a fissarmi per un brevissimo istante. Poi, con chirurgica risolutezza, mi afferra entrambi gli occhi formando delle pinzette con le sue piccole dita da bimba di cinque anni nel tentativo, perfettamente riuscito, di sollevarmi le palpebre.
“Dobbiamo andare al mercato!”.
Si è già infilata le scarpine da sola. Mi strattona il braccio tirandolo a sé con tutta la forza che ha “Oohhh…issa!”.
“Va bene, va bene” faccio io.
“Il papà ci aspetta giù in macchina. Ci aspetta giù. Sbrigati” mi ordina lei.
“Ma io non voglio venire oggi”, provo a protestare mentre lei mi lancia i bermuda e la maglietta.
“Dobbiamo andare. Ci fermiamo alla paninoteca” taglia corto lei.
“All’andata o al ritorno?” chiedo io.
“Alla paninoteca” ribatte.
Non mi resta che decidere di porre fine alla tortura con la massima rapidità possibile. Mi infilo senza indugi la maglietta amaranto dell’Aston Villa campione d’Europa 1982, i pantaloncini verdi del Montreux e le Diadora appiccicose e sgangherate che da tutta l’estate personificano la mia unica calzatura, come per ogni bambino di dieci anni che si rispetti. E, senza lavarmi faccia e denti, afferro mia sorella e la sollevo per trasportarla in braccio fino all’auto.
“Lasciami!” mi ingiunge subito con fermezza incontrovertibile.
I suoi piedini scatenati riatterrano roteando così da lanciarsi subito in una corsa sghemba e famelica verso il cortile in cui nostro padre ci aspetta con la Peugeot famigliare in moto, la portiera spalancata sull’aria fresca del mattino e la “Gazzetta” aperta sul volante. L’alba comincia a irrorare di luce le colline verdissime.
“Non voleva venire” si lamenta lei.
“Un’altra volta lascialo nel letto” la ammonisce nostro padre.
“Io prendo la torta salata col prosciutto rosso” sentenzia lei.
“Ci fermiamo all’andata o al ritorno, papà?” faccio io.
“Te lo meriti?” mi esorta crudelmente lui a un irragionevole esame di coscienza mattutino.
“Non glielo diciamo alla mamma, papi, stai tranquillo. Così non ti sgrida che spendi i soldi per straviziarci – interviene lei – io prendo la torta salata col prosciutto rosso. Divisa in due pezzi”.
“Io con la salsiccia cruda” ridacchia lui mentre, manco fosse il classico fratello maggiore un po’ spaccone, mi scaraventa addosso il giornale aperto sullo sport, prima di iniziare la sua brusca e tipica manovra di partenza.
La Juve ha preso Boniek titola il quotidiano.
Le mie mattine d’estate del 1982 erano contrassegnate da incubi indelebili di sorelline trasformate in roditori che mi tormentavano all’alba e da lunghi tragitti in auto a far compagnia a mio padre nel suo estenuante girovagare per mercati, case di contadini, allevatori di maiali e affinatori di culatelli. La nostra ricompensa ci veniva liquidata sotto forma di panino con torta salata e prosciutto rosso sulla via del ritorno, sosta gastronomica peraltro assai poco gradita a mia madre, cui venivano puntualmente restituiti, all’ora di pranzo, due bambini esausti e immoralmente satolli.
Per questo e per tanto altro nostro padre, lo chef, era indiscutibilmente il peggior genitore della vallata ma, per tutto il resto, era il miglior cuoco del mondo.
Si alzava alle quattro per pensare il menu del giorno e si metteva subito a fare telefonate ai suoi fedelissimi grossisti. Il nostro giro tipo cominciava alle sei; prima tappa, il mercato generale ortofrutticolo. Aveva cinque o sei fornitori: uno per le pesche, uno per l’ananas, un paio per le fragole e via dicendo. Lì, acquistava solo frutta e verdura non stagionale e non autoctona, ma necessaria alla sua idea giornaliera.
La frutta di stagione, quella del territorio, l’avremmo comprata solo all’ultima fermata, prima di mezzogiorno, a Ravarano, in montagna, da un contadino che aveva gli albicocchi e i pruni e, soprattutto, lunghe serre con le fragoline di bosco nostrane, i lamponi e i mirtilli. Le more, invece, crescevano selvatiche lungo le siepi vicino a casa nostra e lo chef ci costringeva a raccoglierle personalmente sotto il sole battente, raccomandandosi tirannicamente di lasciare sulla pianta quelle verdi, mentre noi ci inzuppavamo di sudore e ci pungevamo con le ortiche.
Dopo il mercato, era la volta dei norcini. Il lunedì si andava a Lagrimone, l’avamposto di altura di Langhirano, dove papà-chef si soffermava per ore a esaminare tutti i prosciutti in fase di stagionatura, annotando le caratteristiche di ognuno per poi procedere alla selezione delle cosce che si sarebbe fatto “mettere via”. Il martedì, invece, era il giorno di chiusura ed era dedicato ai viaggi lunghi. Si saltava tutto il resto e si partiva per Neive, a trovare Levi e a riempire il baule di bottiglie di Donna selvatica che scavalica le colline, la grappa a fuoco vivo con un’etichetta bellissima, che mio padre chiedeva con una reverenza più che religiosa, agguantandone poi le casse con una circospezione quasi furtiva, come da ladro sacrilego che violi una chiesa. Mentre si consumava questa strana compravendita dai contorni vagamente illegali, mi aggiravo tra alambicchi e ragnatele, adorando la polverosità dei mobili e delle cose intorno a me, chiedendomi come fosse possibile che persone così disordinate e sporche fossero a loro volta adorate da mio padre e, soprattutto, dalla mia disciplinatissima madre. I percorsi erano avventurosissimi, come andare per me al Tempio maledetto di Indiana Jones, anche se noi compravamo solo olio ottenuto da olive raccolte e spremute sul momento in antichi frantoi di pietra bui e odorosi di verde, che a me parevano prigioni dei pirati e che punteggiavano le colline dense di ulivi antichi. Il mercoledì si andava a Carpaneto o a Vernasca, dopo il mercato della frutta, perlopiù ad acquistare la pancetta e il salame.
Il giovedì si andava nella Bassa, proprio per il culatello.
In quelle giornate si rischiava di non fare ritorno prima del pomeriggio inoltrato. Le trattative erano spossanti e “i contadini di quei posti lì”, ammoniva sempre mio padre, “erano delle brutte bestie, mangiati dalle zanzare e perciò incattiviti, col cervello inzuppato dall’umidità e perciò ottusi”. Ma, alla fine, lo chef riusciva quasi sempre a farsi aprire le porte della cantina: il taglio del culatello era un privilegio che veniva accordato solamente a chi si fosse guadagnato il rispetto delle “brutte bestie”. Era come se un re geloso decidesse di aprire il proprio forziere per mostrare il suo miglior tesoro a un re straniero, tributandogli così il grande onore che mio padre, re di collina, rivendicava pericolosamente senza eccezioni. Quando si riusciva a tornare a casa con almeno un paio di culatelli “giusti”, si era ottenuta una grandissima vittoria e noi eravamo felici perché anche nostro padre era felice. Dopo l’itinerario dedicato ai salumieri, diverso per ogni giorno della settimana, era la volta, il lunedì, del formaggiaio, che poteva essere di pianura o di collina, a seconda del gusto che lo chef voleva conferire ai ripieni; e poi, il mercoledì, dal macellaio: entravamo in enormi celle frigo dove Augusto, mio padre, sceglieva i pezzi migliori palpandoli uno a uno con i suoi grossi polpastrelli. Poi finalmente uscivamo e mentre lui andava a discutere di tutto nell’ufficio del capo, noi correvamo fuori al sole per cercare di scongelarci. Noi ce ne stavamo buoni perché sapevamo che, dopo la carne, sarebbe stato il momento della paninoteca, col prosciutto rosso, la salsiccia cruda e le risate.
Quando finalmente si rientrava alla base sulla collina, per prima cosa scaricavamo la spesa passandoci l’un l’altro i pacchi a catena, operosi come le famiglie unite dei telefilm. In cucina, già da molte ore, c’era grande fermento; donne impegnate a tirare la sfoglia, a infornare crostate e a sgranare fagioli.
E, va da sé, una mamma estremamente contrariata dato che, orologio alla mano, era lucidamente cosciente del fatto che i suoi figlioletti si fossero già sufficientemente ingozzati di focaccia al punto di saltare a piè pari, con tanto di autorizzazione paterna, la passata di zucchine fumante che li attendeva sulla tavola apparecchiata.
La magnificenza ultima dello chef, risiedeva nel fatto che, se alla spesa del ristorante sapeva declinare la propria vocazione al punto di spendere tutte le albe della propria vita, ancor più alla spesa per sé e per la propria famiglia, sapeva riservare un riguardo e una dolcezza di elezione assoluta ad aurore e tramonti, cielo e stelle. Ogni giorno, infatti, non mancava di tornare a casa con un sorprendente e irripetibile fuori programma culinario, certamente ottenuto sottobanco da uno dei nostri
propalatori. Questi, però, non erano che numeri di uno show a sé stante. Perché quando lo chef si metteva seriamente ai fornelli, lo faceva professando uno e un solo inamovibile comandamento: il rispetto assoluto della materia prima elaborata secondo la massima semplicità possibile.
Fu questo il seme più vero che, scevro dall’artificio dello stupore, germogliò di giorno in giorno in me, determinando la mia esistenza e specificando la mia professione; passai attraverso le variopinte suggestioni del mondoristorante, lasciandomi vivere le molteplici esperienze a mia disposizione, sposando filosofie vecchie e nuove, divorziandone e risposandole, cambiando bandiera, rifiutando le bandiere, convinto di essere mosso dalla mia libertà intellettuale.
Ma, contemporaneamente, il marchio di mio padre, sigillato in me, continuava silenziosamente ad auto-elaborarsi sotto traccia, fino al giorno della sua stessa epifania irreversibile che mi rese ristoratore resistente. Il mondo, bisognoso di categorie di riferimento, chiama il nostro settore bistronomia. Io lo chiamo resistenza: al freezer e ai prodotti congelati. Al sottovuoto, al conservato e all’inscatolato. Alla tecnologia, laddove non sia strettamente necessaria e funzionale alla trasformazione sublimante di una
materia prima (come la macchina per tostare il caffè o la pentola per bollire l’acqua in cui gettare la pasta).
Ai sacchettini monoporzione e ai sottovuoto che svuotano il cibo, appunto, della sua intrinseca energia vitale e, va da sé, ai relativi costosissimi forni ipertecnologici che, in taluni tristi casi, sono più utili a soddisfare la mera vanità o a compensare, od occultare, la colpevole lacuna tecnica e culturale.
Perseverare nella somministrazione di soli cibi freschi, stagionali, da consumare in giornata e trasformati con semplicità e amore, a crudo o con il solo utilizzo del fuoco vivo diretto, laddove si esaltano la liquida sensibilità della mano, la rapidità dell’occhio e la destrezza del cuore, è uno dei mandati del ristoratore resistente.
Luca Farinotti
Luca Farinotti, nato nel 1972, è un autore, docente e imprenditore italiano rinomato nel settore della ristorazione e della cultura gastronomica. Ha scritto "Mondoristorante" (2018), premiato al Bancarella della Cucina 2019 e presentato in vari festival, che esplora l'evoluzione della ristorazione italiana nei primi anni del ventunesimo secolo. Il suo libro "Reinstaurant" (2020), è un manuale fondamentale per la ristorazione post-Covid. Ha anche pubblicato "Parma 2020 Best Restaurants & Food Producers" (2019), una guida sostenibile ufficiale di Parma Capitale della Cultura 2020. Farinotti è docente di food storytelling, è stato rettore dell’Accademia Internazionale della Cultura Italiana (2021-2022), ha collaborato con importanti testate giornalistiche e è stato testimonial per UNESCO Parma City of Gastronomy. Nel settore imprenditoriale, ha creato brand di successo come Mentana 104 e Bread Parma, ed ha fornito consulenze a importanti entità nel campo della ristorazione, inclusa quella per il Consorzio del Parmigiano Reggiano.
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