L’onore e la vergogna

l'onore e la vergogna nella ristorazione italiana

di Luca Farinotti

Non è l’occhio nudo della società a determinare l’onore e la vergogna dell’eroe, ovvero lo chef superstar sotto il riflettore, quanto invece l’occhio deforme e deformante del social media, attraverso cui la società è costretta a guardare.

Per ricevere il tributo di una τιμη autentica, basterebbe piantare un orticello e coltivarci l’insalata da servire ai propri clienti.

 

Parcheggio il furgoncino bianco il più possibile vicino all’ingresso Food di questo mastodontico capannone dove avevo giurato di non entrare mai. Promessa, ahimè, da mercante. Scendo. L’aria del mattino è grigia, densa. Appoggio la schiena al furgone, estraggo automaticamente lo smartphone, senza bisogno di connettermi alla coscienza.

Scorro apaticamente lo schermo con il pollice sinistro. Percepisco istintivamente il bisogno di compiere una seppur breve azione umana: mi accendo una sigaretta. Ripongo il telefono e resto a guardare. Guardo, senza bersagli. Il parcheggio comincia ad animarsi. Arrivano, a intervalli quasi regolari, tutti quanti. Sono i colleghi di mio padre. I ristoratori che da bambino ammiravo. Li osservo scendere zoppicanti dai loro mezzi di trasporto. Vedo schiene rigide, piegate in due. Posture inumane, camminate deformi. Vedo, nelle loro facce grigie e dissanguate l’aborrimento dell’umano. Si mettono in fila per inserire l’euro e prendere il carrello. Si stringono le mani, si salutano, si lamentano: dei loro clienti, del fisco e dell’Italia. Mi sfilano davanti, uno a uno. Chi mi saluta con un cenno di circostanza, chi con un sorriso. Chi finge di non vedermi, chi invece mi vede e, a sua volta, vuol esser sicuro di farsi vedere mentre mi punta, rabbioso, gli occhi addosso, e passa e basta. Chi mi ignora perché va dritto e triste per la sua strada, né più né meno.

Arrivano e passano anche i nuovi: i giovani. Quelli che vengono a fare la spesa di verdura col SUV da ottantamila euro. Quelli che appena si svegliano si attaccano l’auricolare dell’iPhone al cervello e ci vivono in simbiosi. Quelli che spaccano. Quelli che mi ispirano tenerezza. Ma anche ira e voglia di regolare i conti.

Nelle loro facce fresche, vedo il sorriso della scimmia, l’energia brada che alimenta colpevolmente il sistema a cui, inconsapevoli, pascolano soggiogati. Anche loro infilano la monetina, si salutano più rumorosamente dei vecchi e mi passano davanti sancendo, a ogni passo, l’aborrimento della civiltà.

“Come ci siamo ridotti” penso. Questo è il momento della spesa dei ristoratori di oggi. Tutti risucchiati nel medesimo, enorme, multi contenitore uniformante, la livella della deturpazione.

Sei nel mondometro, il detentore della grande distribuzione Ho.Re.Ca. Il pareggiatore del mondoristorante. La vittoria, la grande vittoria della standardizzazione del cibo. Il giustiziere del piccolo produttore. Un trionfo che ha visto combattere, al fianco dell’esercito dell’anticultura, la più inaspettata e deprecabile schiera di alleati: i ristoratori. In poco meno di un’ora, il ristoratore contemporaneo si procaccerà tutto ciò che occorre alla realizzazione del proprio menu.

La quasi totalità degli esercizi pubblici, dal bar di quartiere al ristorante stellato, si rifornisce interamente in questi enormi magazzini dove l’insalata è, tutti i giorni, precisamente fotocopiata. Dove le ricciòle e gli scampi decongelati dispongono senza pudore di un numero di immatricolazione e dove lo schieramento seriale di Angus beef esibisce se stesso in flotte armate senza vergogna. L’esperienza mondometro sarà dapprima urticante. In seguito, una volta (forzatamente) integrata, pur non potendo evitarne le conseguenze, sarai per lo meno in grado di identificarne il contrassegno. All’inizio del tuo percorso di risveglio iniziatico riconoscerai le cose più semplici. Per esempio, la tipicità della valeriana che fa da lettino nella maggior parte dei piatti stellati, e non, in qualsiasi giorno della settimana. Imparerai così, condannandola, ad apprezzare un’insalata vera, proveniente da un orto, e a provare un senso di gratitudine verso chi te l’abbia servita, foss’anche il peggiore dei kebabari. I sapori dei prodotti Ho.Re.Ca. hanno una così stupefacente uguaglianza a se stessi che diventerà molto semplice scalare nuovi livelli come investigatore gastronomico, fino alla conquista dei Dan di traduttore universale e di decodificatore/ smascheratore militante dell’omologazione.

Hai fatto tutto il percorso: sei ora cintura nera quinto Dan e ti trovi in un grande ristorante; ti servono una tartare di salmone. La identifichi alla prima occhiata: sai da dove arrivano, lei e quel ciuffetto di misticanze su cui è adagiata. Non ti puoi sbagliare, ormai conosci quelle forme a memoria, come un ritratto rivisto centinaia di volte.

Potresti alzarti, ora. Scaraventare il tuo antipasto addosso al cameriere, rovesciare la tavola. Estrarre una pistola automatica e fare una strage di ristoratori. Invece riguardi il piatto. Poi ti guardi rapidamente intorno. Vedi persone comodamente sedute, serene. Grigie e dissanguate, ma serene e ben vestite. Le osservi mentre introducono nelle proprie fauci una forchettata di gambero in crosta mondometro, o di tartare mondoselecta, con la più spontanea naturalezza del mondo. Sorridono. Lasciano le misticanze nel piatto. Il loro subcosciente ne detta l’abominio.

Il subcosciente collettivo reputa questa performance sufficientemente funzionale alla giustificazione dei trenta euro che stai spendendo per pagare quella che, nel migliore dei casi, non è niente più che auto-celebrazione estetica.

Mondometro è il vaso di Pandora da cui il ristoratore improvvisato trae soluzioni folli, sulla via di comode scorciatoie.

Le scorciatoie del mondoristorante costituiscono un vero e proprio vizio che facilmente rende gli uomini non solamente schiavi dello stesso, ma, ancor più, suoi difensori irriducibili, pur di salvaguardare il proprio effimero valore sociale, da questo sostenuto e alimentato.

Come si può chiedere al ristoratore che si approvvigiona alla grande distribuzione di essere veritiero nel dichiararsi, dal momento che l’inganno è lo scudo stesso della sua propria metodologia di lavoro? Se il ristoratore omologato fosse costretto a guardarsi allo specchio o se le telecamere del grande fratello fossero costantemente puntate su di lui, egli si sentirebbe forse in dovere di essere il più virtuoso possibile, commisuratamene alla propria cultura e consapevolezza? Ciò non può però accadere, in quanto il sistema all’interno del quale egli opera è governato da una mediaticità che garantisce la trasparenza fittizia e modulabile, al fine di mostrare solo ciò che si vuole fare selettivamente vedere.

Il senso di vergogna e il senso di colpa erano da considerarsi, nell’epoca pre-social, regolatori etici. La cultura di colpa era caratteristica della civiltà occidentale moderna e cominciò ad apparire in Grecia in un periodo successivo all’epica omerica (essa in effetti appare già pienamente sviluppata nella tragedia).

In una cultura di colpa, quando un uomo agisce in modo contrario al codice di comportamento imposto dalla società in cui vive o dalla sua morale religiosa, anche se riesce a evitare una sanzione penale, tende a riconoscere il proprio comportamento come errato e prova rimorso.

Estinta ormai da tempo la cultura di colpa medesima, ci era rimasta almeno l’eredità storica della cultura di vergogna, fondata sul fatto che la sanzione per un comportamento errato non risieda nel senso d’indegnità che un uomo prova dentro di sé, ma nel biasimo della comunità. Pertanto, un comportamento non era considerato colpevole fino a quando su di esso non pesasse la disapprovazione della comunità, e la sanzione poteva anche risiedere unicamente nel senso di vergogna che affliggeva chi non si fosse mostrato all’altezza della sua fama, conducendo questi al pubblico disprezzo. In questo tipo di società, dunque, il bene supremo non stava nel godere di una coscienza tranquilla, ma nella conquista della pubblica stima. Ciò che interessava non era essere forti o coraggiosi ma “essere detti” dagli altri forti o coraggiosi: la gloria (dalla traduzione dal greco di voce) consisteva nell’ammirazione e nella lode tributata dalla comunità a una persona che avesse mostrato il suo valore davanti agli occhi di tutti. Di qui l’importanza che assumeva la τιμη (timè), vale a dire l’onore, derivante dal pubblico riconoscimento. La timè, a sua volta, non era un sentimento astratto, ma si manifestava materialmente con tributi e onori riservati alle persone più valorose.

Una cultura di vergogna condiziona fortemente gli impulsi personali di un individuo e lo indirizza verso comportamenti retti, nel senso che egli tende ad agire secondo schemi precostituiti dall’esterno, dai quali non osa discostarsi per non essere biasimato dalla comunità: tutto ciò che lo espone

al disprezzo pubblico risulta per lui intollerabile, al punto che persino la morte è preferibile.

Ebbene, il mondoristorante oggi è un contenitore la cui esposizione mediatica costituisce un fenomeno sociale senza precedenti, sia per quanto riguarda la storia pre che quella post invenzione dei social. E la conquista della τιμη deve essere ottenuta a qualsiasi costo, distorcendo la realtà e recidendo a priori ogni possibilità di trovarsi a confronto con la vergogna.

Non è l’occhio nudo della società a determinare l’onore e la vergogna dell’eroe, ovvero lo chef superstar sotto il riflettore, quanto invece l’occhio deforme e deformante del social media, attraverso cui la società è costretta a guardare.

Da qui, la nefasta alterazione strumentale in funzione di meri fini di marketing industriale. In pratica, per ricevere il tributo di una τιμη autentica, basterebbe piantare un orticello e coltivarci l’insalata da servire ai propri clienti.

Ma, disgraziatamente, in realtà è orribilmente sufficiente fingere con perizia di avere un orto per ottenere montagne di likes.

condividi l'articolo

Luca Farinotti

Luca Farinotti, nato nel 1972, è un autore, docente e imprenditore italiano rinomato nel settore della ristorazione e della cultura gastronomica. Ha scritto "Mondoristorante" (2018), premiato al Bancarella della Cucina 2019 e presentato in vari festival, che esplora l'evoluzione della ristorazione italiana nei primi anni del ventunesimo secolo. Il suo libro "Reinstaurant" (2020), è un manuale fondamentale per la ristorazione post-Covid. Ha anche pubblicato "Parma 2020 Best Restaurants & Food Producers" (2019), una guida sostenibile ufficiale di Parma Capitale della Cultura 2020. Farinotti è docente di food storytelling, è stato rettore dell’Accademia Internazionale della Cultura Italiana (2021-2022), ha collaborato con importanti testate giornalistiche e è stato testimonial per UNESCO Parma City of Gastronomy. Nel settore imprenditoriale, ha creato brand di successo come Mentana 104 e Bread Parma, ed ha fornito consulenze a importanti entità nel campo della ristorazione, inclusa quella per il Consorzio del Parmigiano Reggiano.

you may be also interested in