Olio EVO: manuale pratico per autolesionisti inconsapevoli
di Nicola De Ieso
Gli americani dicono che gli italiani sono l’unico popolo che parla di cosa mangerà a cena mentre sta pranzando. Forse è vero che siamo ossessionati dal cibo, e che ci sentiamo eredi predestinati di un primato gastronomico planetario, ma bistrattiamo spesso il principe della Dieta Mediterranea: l’olio extra vergine d’oliva. Questo popolo di santi, poeti, navigatori e chef, in realtà, lo conosce poco e lo usa male.
L’olio, al pari del vino, è strettamente legato alla storia del Mare Nostrum, occupando da duemila anni un ruolo di primo piano nell’iconografia cristiana. L’olio è il Crisma regale che “unge” gli illuminati dalla fede e i corpi defunti per prepararli al Giudizio Universale. In tutto il bacino del Mediterraneo si coltivano l’ulivo e la vite, ma solo nella penisola e nelle isole italiane la creatività dell’uomo e la biodiversità della natura hanno fatto esplodere un giacimento infinito di varietà, sapori e profumi.
Tuttavia, se nell’immaginario collettivo il vino conquista il trono con sommelier, fiere, sagre, itinerari, carte dei vini, insidiosi dibattiti tanninici, l’olio extra vergine viene relegato al ruolo di giullare di corte, di corollario culinario. Per onestà intellettuale, va detto che non è sempre così. Grazie all’impegno di eroici divulgatori, qualcosa sta cambiando, anche se con molta lentezza. Alcuni ristoratori illuminati hanno introdotto la carta degli oli e l’esperienza degustativa degli abbinamenti, innalzando l’olio dall’umile rango di condimento al nobile ruolo di alimento.
Un olio evo di qualità ha un costo importante, non c’è dubbio. Ma se paragoniamo la quantità utilizzata a quella di un vino di fascia media, il peso economico di un grande olio evo è davvero contenuto. Quando tutti gli chef, i cuochi e le cuoche, capiranno che un olio extra vergine può esaltare il valore di un piatto al pari degli altri ingredienti, smetteremo finalmente di nutrirci di liquidi grassi senza sapore.
Nel frattempo, proviamo a capire qualcosa in più dell’olio e a smontare alcuni luoghi comuni.
Se un olio pizzica in gola, è un extra vergine eccezionale. Ma molti pensano ancora che sia un difetto! Quel pizzicore lì è invece la prova incontrovertibile di una presenza massiccia di polifenoli. Cosa sono i polifenoli? Il vero elisir della salute e della longevità. Aiutano le cellule a contrastare i danni dei radicali liberi, che sono generati dal metabolismo fisiologicamente o come risposta a fumo, agenti inquinanti, raggi UV, stress emotivo e fisico, sostanze chimiche, attacchi virali e batterici. Sono un aiuto efficace contro il meccanismo di attivazione di processi cancerogeni. Contrastano le malattie cardiovascolari e l’arteriosclerosi e sono antinfiammatori. Basta come motivazione per smettere di usare un olio qualsiasi?
L’olio si produce e si consuma nel bacino del Mediterraneo da oltre tremila anni. Nei secoli l’esperienza ha insegnato a greci e romani che va tenuto al buio. La luce, anche a bassa intensità, accelera l’ossidazione. Eppure, oggi, quando si compra l’olio, buona parte degli italiani è convinta che quello in bottiglia sia migliore di quello in lattina. Perché? Per praticità, nessun mistero. Molti produttori, per fortuna, stanno cominciando a rivestire le bottiglie da cima a fondo con pellicole argentate: un compromesso molto intelligente.
L’altro nemico giurato dell’olio è l’aria. Non bisogna lasciare mai una bottiglia aperta, anche se conservata al buio. Oltre all’aria, anche piccoli residui di olio vecchio e rancido uccidono l’extra vergine. Motivo per cui sono nati i tappi antirabbocco, che servono ad impedire la pessima usanza (praticata per anni e ancora diffusa, nonostante il divieto) di riempire i contenitori di olio usati. Un sotterfugio disonesto e dannoso, che altera totalmente l’extra vergine. Una volta aperto il contenitore o la bottiglia, infatti, le qualità organolettiche dell’olio evo cominciano a decadere. L’acidità dell’extra vergine, che deve stare sotto lo 0,8%, comincia a salire fino a trasformarlo prima in un vergine e poi in un olio lampante. Quest’ultimo ha un’acidità talmente alta da non poter essere destinato al consumo umano. Infatti, veniva chiamato “lampante” l’olio di scarto, non più commestibile, che veniva usato in passato per alimentare lo stoppino delle lampade.
Provate a chiedervi quante volte nella vita avete versato l’olio sull’insalata, sulla pasta, su un arrosto, su una pizza, versandolo direttamente da oliere in vetro o in ceramica che vi hanno portato in tavola. Con ogni probabilità avete ingerito e fatto la scarpetta con olio lampante. Magari vi avranno detto che quell’olio era un extra vergine, ma la sua cattiva conservazione lo ha trasformato in un attentato alla salute, lasciando la bottiglia chiusa male e per lungo tempo a fare su e giù dai tavoli.
Ma come fare a scegliere un olio extra vergine con consapevolezza? Intanto cominciamo a chiarire le differenze. Un olio di oliva vergine è stato prodotto con gli stessi procedimenti dell’extra, ma ha difetti percettibili e la presenza di acido oleico fino a 2 grammi ogni 100. Un extra vergine, come già detto, non deve superare 0,8 grammi. L’olio lampante supera l’acidità del vergine e può arrivare a 3 grammi. Per poterlo consumare, l’olio lampante viene trattato chimicamente per abbassare l’acidità. Lo stesso può accadere quando un olio vergine ha bisogno di essere rettificato. Il risultato è un olio definito “raffinato”, senza aver nulla a che fare con l’eleganza. Dalla miscela di oli vergini o extra e oli raffinati si ottiene l’olio “di oliva”. C’è poi anche l’olio di sansa raffinato, ma è una porcheria che lasciamo dove sta.
Capite bene che se il massimo della qualità si può trovare solo in un extra vergine, quando si compra un olio bisogna stare molto attenti all’etichetta. Così si spiegano le oscillazioni di prezzi, per cui un extra vergine non può costare pochi euro al litro. Sul prezzo può incidere anche l’anno di raccolta delle olive, che negli oli evo è indicato chiaramente. L’extra vergine di pochi mesi è al suo picco di qualità.
A far variare il prezzo al consumo è anche l’origine degli oli e delle olive. Qui il gioco dell’inganno in etichetta tocca punte di teatralità straordinarie, con colori verde erba, paesaggi bucolici e ammiccamenti all’italianità. Se un olio extra vergine è fatto in Italia con olive italiane, sull’etichetta deve essere stampato a chiare lettere. Se le olive o le miscele di oli provengono da altri paesi dell’Unione Europea, la parolina chiave è “comunitari”. Se la provenienza è extra Ue, la definizione è “non comunitari”. Spesso le miscele di oli in commercio sono “comunitari e non comunitari”.
Qualcuno potrebbe chiedere: ma sei convinto che il miglior extra vergine sia solo quello italiano? Personalmente sì, ma non è questo il tema. I consumatori hanno il diritto di scegliere consapevolmente ciò che mangiano. Se c’è un olio spagnolo o tunisino di qualità eccellente, è giusto che sull’etichetta campeggi la scritta 100% olio spagnolo o tunisino con relativa bandierina.
Cosa rende speciale un extra vergine italiano? La ricchezza della biodiversità, la cura degli agricoltori e l’abilità dei frantoiani. In tutto il pianeta si producono circa tre milioni di tonnellate di extra vergine. Il 40% è fatto in Spagna, il 20% circa in Italia, poco sotto c’è la Grecia; il resto si fa negli altri paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Oggi l’ulivo ha valicato le colonne d’Ercole e si coltiva anche in Australia, Giappone e Cina. Ma se le varietà di olive conosciute nel mondo sono quasi 1.500, il paese che ne ha più di tutti è l’Italia con oltre 500. La Spagna con una decina di varietà fa quasi la metà della produzione mondiale. Cosa significhi questo in termini qualitativi e ambientali è del tutto evidente. Gli uliveti italiani offrono una gamma incredibile di sentori e sapori, assolutamente inimitabili. Sono parte integrante di paesaggi affascinanti, lungo le dorsali degli Appennini, a picco sul mare o a ridosso dei laghi.
Morale della favola: è inaccettabile una cultura dell’olio così approssimativa nel paese che ha inventato la Dieta Mediterranea. Cari ristoratori, cuoche e cuochi domestici, smettetela di maltrattare il principe! Facciamoci del bene.
Nicola De Ieso
Nato nel 1975, il soggetto della biografia è un giornalista e comunicatore italiano con una carriera lunga oltre vent'anni. La sua passione per la narrazione si è sviluppata al Liceo Classico nel Sannio e all'Università Stranieri di Perugia, dove si è laureato in Tecnica Pubblicitaria. Ha imparato a distinguere tra informare e influenzare, un'abilità raffinata durante la sua carriera. Ha lavorato come project manager per Achab Med, direttore della casa editrice Natan Edizioni, giornalista d'inchiesta per il Sannio Quotidiano, e ha gestito l'ufficio stampa della Commissione Trasparenza della Regione Campania e della federazione regionale Coldiretti. Dopo una decisione presa durante un viaggio a piedi sulla Via degli Dei, si è trasferito a Fidenza, in provincia di Parma. Ora è consulente aziendale specializzato in comunicazione d'impresa per il settore alimentare e ambientale, collabora con la Gazzetta di Parma, gestisce la comunicazione e l’ufficio stampa del Consorzio di tutela della Rucola IGP e dirige Make Me Italy.
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