Sliding Food: la democrazia del cibo
La nuova frontiera della libertà è la trasparenza nell’accesso al cibo.
di Nicola De Ieso
“I poveri mangiano meglio dei ricchi.” Qualcuno aveva pensato ad un colpo di calore nell’estate più rovente di sempre, ma la frase infelice del ministro italiano alla sovranità alimentare è stata un lampo nel buio. Grattando con vigore la spessa patina di polemiche che si è depositata nel web, piovuta giù a grandinate con prevedibili e indignate filippiche, viene fuori una verità che si fa finta di non vedere. Il cibo sarà l’emergenza democratica del futuro.
Facciamo marcia indietro e proviamo a capire cosa volesse dire il ministro. Nella sua affermazione – magari un po’ semplicistica, o volutamente tale per stuzzicare i riflessi condizionati pavloviani – c’è del vero. Calma, calma… ci arriviamo.
Il ministro governa un ministero che ha aggiunto la sovranità alimentare all’agricoltura. Ma cos’è la sovranità alimentare? Tutti ricorderanno le sciabolate rabbiose al governo di destra per aver usato (scandalo!) la parola “sovranità”. Come al solito, una parte dell’intellighenzia italiana ha reagito come gli ultras allo stadio, cadendo in banali trappole comunicative. Senza distinguere il significato di una parola dalla sua versione spregiativa, la melassa violenta dei commenti ha deciso che sovranità e sovranismo sono sinonimi. Punto. La medesima perversa spirale aveva già fatto lo stesso capolavoro con “populismo”, disprezzando la parola “popolo”. Tuttavia, il secondo comma dell’articolo uno della Costituzione Italiana ci ricorda che “la sovranità appartiene al popolo”, ovvero la traduzione etimologica di democrazia.
A questo punto vi chiederete cosa c’entra il cibo? Da almeno due milioni di anni c’entra sempre. Può dirsi davvero sovrano, e libero, un popolo che non può o non sa scegliere cosa mangiare?
I primi a parlare di sovranità alimentare sono stati i contadini “no global” di un movimento internazionale nato a metà degli anni ’90. Confondere la sovranità alimentare con l’autarchia è una cagata pazzesca.
Dalle Americhe, dall’Asia, dall’Europa e dall’Africa partono ogni giorno milioni di tonnellate di prodotti alimentari: cereali, frutta, carne, pesce, latte, formaggi, grassi, zucchero e tanto altro. Così come l’Italia sarà sempre un grande esportatore di eccellenze agroalimentari, il resto del mondo continuerà a produrre ed esportare commodities agricole.
La nuova frontiera della libertà è la trasparenza nell’accesso al cibo. Un popolo sovrano ha il diritto di sapere cosa mangia. Così come ha il diritto di produrre senza la concorrenza sleale di chi ruba l’identità di un marchio tutelato o importa semilavorati spacciandoli come eccellenza territoriale. In altre parole, significa valorizzare il food in un mercato libero e trasparente, dove gli esseri umani non sono macchine da ingozzare come gli schiavi di Matrix.
L’accesso al cibo buono e sano per tutti dovrebbe essere un diritto universale, ma non lo è. Quando il ministro dice che i poveri mangiano meglio si riferisce a quella parte di umanità, e di italiani, che vive in realtà rurali dove resistono stoicamente l’autoconsumo, l’agricoltura eroica e lo
scambio. Nei piccoli paesi aggrappati alle aree montane, i pochi residenti rimasti non sono ricchi, ma mangiano bene. Non c’è dubbio. Ma è un fenomeno del tutto marginale rispetto alla massa di persone che comprano alimenti solo con il metro del portafoglio. Se il paragone è il peso, infatti, non è vero che si risparmia comprando cibo sano.
La realtà è che i poveri mangiano schifezze e i ricchi mangiano cibi biologici. I poveri del XXI secolo sono anche quelli che tirano la cinghia fino alla fine del mese. E sono la maggioranza. Comprano nei supermercati, riempiendo i carrelli di prodotti di cui non sanno niente. Spesso il cibo scadente a prezzi bassi è l’unica soluzione per sopravvivere. Provate a fermarvi agli scaffali degli oli e osservate chi compra l’extra vergine. Ho visto cose che voi umani… signore attempate comprare olio da 3 euro al litro, fatto con miscele di oli scadenti e di dubbia origine, ingannate da etichette di un bel verde erba; giovani uomini scegliere oli “raffinati” da quattro soldi, pensando che l’aggettivo richiami la raffinatezza e non la raffinazione chimica di oli altrimenti non commestibili per eccesso di acidità. Un gesto di liberazione potrebbe essere dissuadere queste persone dall’autolesionismo, spiegando loro che un olio di qualità ha sentori e profumi così intensi che basta versarne poco; e che un olio scadente è un grasso liquido e insapore, che sei costretto a colare in abbondanza per sentire qualcosa. Un olio di qualità difende la salute del corpo, un olio scadente no.
Questo meccanismo del consumo di cibo genera due tipologie di offerte. Da una parte c’è il cibo per la massa, dall’altra c’è il cibo di qualità per chi se lo può permettere o per chi ha le competenze per sceglierlo.
Se il modello produttivo e distributivo resta quello attuale, il discrimine per l’inclusione resta solo il denaro. Ma non è detto che sia l’unico modello possibile. Il cibo di qualità può essere accessibile a tutti se “il popolo” conquista la sua sovranità attraverso la conoscenza e la cultura di un’alimentazione che cura il corpo e l’anima. Un popolo consapevole di ciò che mangia può chiedere autenticità. Non a caso la sana alimentazione e la salute sono richiamati nella Dichiarazione Universale dei diritti umani. Il cibo è qualità della vita, è benessere psicofisico, è economia diffusa, è tutela dell’ambiente, è comunità, è storia, è futuro.
Tuttavia, il confine tra il bene e il male può diventare labile, anche per chi agisce in buona fede. Prendiamo l’esempio del lungo dibattito, tuttora in corso, sul cibo sintetico. Chi difende la tesi della tecnologia come unica strada per sfamare otto miliardi di persone, magari non vuol vedere un’altra verità. Questo modello di produzione artificiale del cibo assomiglia tristemente ad un mangimificio per esseri umani. È una strada molto pericolosa che separerà, con porte girevoli, la massa dall’élite. Una porta girevole, piccola, sarà riservata alla nuova aristocrazia del potere d’acquisto. E un’altra porta, enorme, sarà l’unico accesso per l’umanità di serie B, costretta a nutrirsi in fabbriche che stampano carne e latte in 3D, tramutando il cibo in un carburante biochimico. Non è un romanzo distopico, ma quello accade se al cibo togliamo il legame con la terra e l’identità.
Siamo di fronte ad un cambiamento epocale. Ci sarà un prima e un dopo, come le ere geologiche. Se non cambia il paradigma del cibo, se non si diffonde la cultura della qualità, se non si difende la biodiversità, la posta in gioco diventa maledettamente alta.
Nicola De Ieso
Nato nel 1975, il soggetto della biografia è un giornalista e comunicatore italiano con una carriera lunga oltre vent'anni. La sua passione per la narrazione si è sviluppata al Liceo Classico nel Sannio e all'Università Stranieri di Perugia, dove si è laureato in Tecnica Pubblicitaria. Ha imparato a distinguere tra informare e influenzare, un'abilità raffinata durante la sua carriera. Ha lavorato come project manager per Achab Med, direttore della casa editrice Natan Edizioni, giornalista d'inchiesta per il Sannio Quotidiano, e ha gestito l'ufficio stampa della Commissione Trasparenza della Regione Campania e della federazione regionale Coldiretti. Dopo una decisione presa durante un viaggio a piedi sulla Via degli Dei, si è trasferito a Fidenza, in provincia di Parma. Ora è consulente aziendale specializzato in comunicazione d'impresa per il settore alimentare e ambientale, collabora con la Gazzetta di Parma, gestisce la comunicazione e l’ufficio stampa del Consorzio di tutela della Rucola IGP e dirige Make Me Italy.
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