Favole a Pantelleria
Una pasta alla norma senza tempo sul lago di Venere
di Luca Farinotti
I Limoni, forti, di Eugenio Montale li ho trovati a Pantelleria. Abitavo a Khamma. Una dolce anziana signora mi aveva affittato una camera profumata di cedro, con la finestra affacciata su Cala Elefante. Ogni mattina mi faceva trovare, elegantemente adagiato su un fazzoletto di pizzo bianco, un meraviglioso limone maturo. I Panteschi, infatti, sono soliti omaggiare gli ospiti con quello che ritengono il loro bene più prezioso, il limone. Intorno agli alberi di limone, a Pantelleria, venivano erette, un tempo, delle piccole fortezze in sasso, simili a nuraghi, per proteggere la pianta dalle sferzate del vento impetuoso che non smette mai di percuotere l’isola.
I jardini, come vengono chiamati dagli abitanti, racchiudono, ciascuno, una sola pianta, trasmettendo un senso di sacralità, quasi fossero un monumento religioso dedicato all’albero che custodiscono. Da qualcuno furono definiti giardini archetipo, a indicare come la mano dell’uomo fosse intervenuta sul paesaggio con rispetto, coniugando con equilibrio i bisogni di sussistenza col contesto naturale, e a testimoniare come l’isola fosse stata per secoli, almeno fino all’avvento dei mezzi di comunicazione moderni, un vero e proprio microcosmo scevro dei condizionamenti esterni. Questo scoglio irto in mezzo al Mediterraneo, più prossimo all’Africa che all’Italia, è difficilmente raggiungibile via mare per la sua conformazione. I suoi boschi verdi, la sua montagna, la non agevolezza alla pesca, plasmarono la popolazione, rendendola gente di terra. La cucina tradizionale, infatti, è caratterizzata da ricette semplici, ma dai sapori inebrianti, a base di verdure, capperi, tumme profumatissime (tratte dal latte di mucche libere di pascolare in altura, da erba e fiori selvatici), lavanda, camomilla, erbe aromatiche di rupe, lepri, conigli e, infine, dall’origano selvatico, principe dell’isola e immancabile ornamento di ogni piatto.
A quel tempo, l’isola era ancora intensamente popolata dagli ultimi abitanti nati tra le due guerre, legati alle tradizioni, e i cui riferimenti spazio-temporali erano ben diversi da quelli convenzionali. le coordinate mentali del Pantesco di settant’anni avevano, come riferimento unico, il perimetro dell’isola che, per lui, rappresentava il Mondo. Per la signora che mi ospitava a Cala Elefante, percorrere la distanza di una manciata di chilometri tra Khamma e Gadir significava intraprendere un vero e proprio viaggio.
In questo micro-mondo indipendente, questo mondo di limoni, scevro da qualsiasi schema a me precedentemente conosciuto, ho vissuto le esperienze più assimilabili alle caratteristiche che il modello di Ristoratore Resistente dell’era omologante dovrebbe incarnare.
Quest’isola impresse in me il modello di riferimento del mondoristorante non condizionato a cui ispirarsi: una ristorazione libera e spontanea, integralmente coniugata con i ritmi naturali della propria terra.
La pasta alla Norma
Circa a metà della strada che collega Khamma al porto, si incontra un bivio contrassegnato da un cartello sbiadito: lago. Prendendo la carraia, si risale un ripido declivio con tornanti ad angolo acuto in mezzo ai cespugli arsi dal sole. Più ci si inerpica, più il paesaggio sembra inasprirsi ma, di colpo, allo scollinare, l’improvviso, imprevedibile spalancarsi di una spettacolare ampiezza, da togliere il fiato, svela il Lago di Venere: uno specchio verde-azzurro circondato da sabbie bianchissime, incastonato sul promontorio. Per la sua strabiliante bellezza, gli antichi asserivano che il lago si fosse formato dalla caduta dal cielo di una lacrima di Afrodite (Astrate per i Fenici).
Emergo dalla mia lunga contemplazione del silenzio, calato nelle acque termali e cristalline del lago. Percorro le poche decine di metri che separano la spiaggetta da un’oasi di palme e cedri, all’interno della quale sorge un piccolo dammuso bianco che ha tutta l’aria di essere un posto di ristoro. Seduti a un tavolo di pietra, all’aperto, quattro signori in abito festivo pantesco, con coppola, panciotto e tutto il resto nonostante il caldo, giocano a carte all’ombra delle palme. Mi avvicino. Chiedo se sia possibile mangiare. Uno dei signori, quello più elegante, senza dubbio il capo, ordina di uscire, con un brevissimo, perentorio segnale monosillabico (a me ovviamente incomprensibile) a qualcuno che si trova all’interno. Sopraggiunge, allora, una signora molto anziana, secca e diffidente. Quasi certamente, sua moglie.
“Cosa volete?” chiede energicamente, volgendo lo sguardo altrove.
“Vorremmo sapere se è possibile pranzare, signora” rispondo gentile.
I quattro giocatori di carte hanno intanto interrotto la partita e, silenziosi, osservano il mio amico in costume da bagno.
La signora, nonostante la conversazione fosse stata ben udibile, si rivolge cerimoniosa al marito, ripetendo: “Questi picciotti vorrebbero mangiare. Li entro?”
La τιμή:
Il capo, allora, alza leggermente il volto verso di noi. Ci osserva per alcuni lunghi istanti, poi piega impercettibilmente la testa, indicando l’ingresso.
La signora, a questo punto, ci sorride: “Entrate pure signori, l’amico vostro si veste – mi dice – e dopo può entrare pure lui”.
“Grazie, signora, siamo onorati” rispondo.
La sala ristorante è un open space, armoniosamente allestito, come il miglior architetto newyorkese non avrebbe saputo fare.
La signora ci siede, servendoci subito un cestino di pane cotto a legna, appena sfornato.
“Vi porto il vino? Bianco o rosso? Della nostra campagna” specifica, concisa e ossequiosamente attenta a non incrociare i nostri giovani occhi maschili.
“E da mangiare, cosa vi porto?”
“Ha un menu, signora?” chiedo con vergogna.
“Sto friggendo le nostre melanzane – risponde lei – le volete così o vi faccio gli spaghetti? Questo c’è, nel menu di oggi”.
“Allora prendiamo volentieri gli spaghetti” esclamo, strizzando l’occhio al mio amico Mirko.
La brezza del lago permea il locale, irrompendo dalle finestre e dalla porta spalancate. S’ode, tutt’intorno, soltanto il suo stormire tra le foglie.
Riceviamo, dopo dieci minuti, su un piatto di ceramica stupendamente decorato di Soli sorridenti e limoni grossi e maturi: pochi spaghetti, perfettamente al dente e regalmente presentati. Adagiate, sopra di essi, tre enormi fette di melanzana dorate, morbide, croccanti, dolcissime.
Mangiamo il nostro spaghetto in silenzio, rapiti, quasi drogati da sapori e profumi sconosciuti.
Facciamo un sorriso. E poi ancora un altro.
“Vorrei fermarmi qui per sempre” rompo il silenzio.
“O solo qualche anno, come Odisseo” aggiunge Mirko.
Subito dopo aver sparecchiato, la signora, senza nulla chiederci, ci porta al tavolo una caffettiera fumante. “Ecco il caffè! E’ forte, è buono…” e un posacenere, sempre di ceramica, dipinto con fiori e foglie blu, verdi e arancioni, sul cui bordo è scritto: Tempus Fugit. Carpe Diem.
“Così, dopo il caffè, fumate una bella sigaretta…”
Luca Farinotti
Luca Farinotti, nato nel 1972, è un autore, docente e imprenditore italiano rinomato nel settore della ristorazione e della cultura gastronomica. Ha scritto "Mondoristorante" (2018), premiato al Bancarella della Cucina 2019 e presentato in vari festival, che esplora l'evoluzione della ristorazione italiana nei primi anni del ventunesimo secolo. Il suo libro "Reinstaurant" (2020), è un manuale fondamentale per la ristorazione post-Covid. Ha anche pubblicato "Parma 2020 Best Restaurants & Food Producers" (2019), una guida sostenibile ufficiale di Parma Capitale della Cultura 2020. Farinotti è docente di food storytelling, è stato rettore dell’Accademia Internazionale della Cultura Italiana (2021-2022), ha collaborato con importanti testate giornalistiche e è stato testimonial per UNESCO Parma City of Gastronomy. Nel settore imprenditoriale, ha creato brand di successo come Mentana 104 e Bread Parma, ed ha fornito consulenze a importanti entità nel campo della ristorazione, inclusa quella per il Consorzio del Parmigiano Reggiano.
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