<<Quando, 1956, pubblicai, alcuni mesi dopo “Il Pensiero”, rivista di filosofia teoretica, “Il Gastronomo”, rivista di gastronomia, non ebbi il minimo imbarazzo. Che è la gastronomia, infatti? Un atto del giudizio, teso a separare, nel campo degli alimenti ciò ch’è buono da ciò che buono non è. Obbligatoria quindi, per un giornalista gastronomo, la scelta della qualità. Se mi leggi, sai: l’ho scelta. Ahi, che non l’hanno fatto -e non solo nel mio campicello- gli altri>>. Scriveva così, su Panorama del gennaio 1981, Luigi Veronelli di cui ricorre, oggi, il novantacinquesimo della nascita. Inventore della narrazione enoica, della narrativa gastronomica e di una nuova poetica contadina, televisiva e avvincente, quasi come a riportare in vita, dopo un millennio, il sentimento dell’idillio agreste codificato da un linguaggio classico perfettamente in armonia con le dinamiche economiche, industriali, tecnologiche e politiche del Ventesimo Secolo. Un linguaggio fatto di neologismi e forzature grammaticali non teorizzate ma generate da un sentire profondamente connesso alla terra e alle sue linfe, al punto di trasformare in transitivi i verbi intransitivi (“camminare le vigne”) e di sottolinearne la visceralità (“i miei cru”) nel renderne il più aulico possibile il racconto (“memorare i vini”). L’etica veronelliana, l’anarchia intelligente che lasciò spesso interdetti i critici del suo pensiero, è conseguente dunque, non fondante, a un sentire che non può essere tradito. Da qui, le battaglie sulle politiche agricole, sui disciplinari, contro l’industrializzazione e l’omologazione dei “suoi” giacimenti gastronomici. Veronelli era così autenticamente anarchico al punto di seguire irremovibilmente regole rigidissime dentro al perimetro di ideali contenitori di “buon senso” dove tutti avrebbero dovuto giocare allo stesso gioco, seguendo le stesse regole. Scriveva ancora (su Panorama del gennaio 1975): <<Veronelli se non ti fai degli allievi, perdi la tua battaglia; sui cru dico, e sui vini contadini -mi ammonisce un amico. Ne ho di allievi, e tali da esserne orgoglioso, pronti già, per caparbia precisione e capacità a superare il “maestro”>>. L’enogastronomia è partita così, lentamente, dentro a scatole di dialettica pacata, da meditazione. Poi si è ingrossata, attraverso i decenni, come una pallina di neve che, in accelerazione, raccogliendo altra neve, si fa valanga globale per impattare sulla contemporaneità con la saturazione del suo spettacolo incessante. All’interno di questo mondo in crisi ma pieno di cibo, di ristoranti, prodotti a chilometro zero, vini naturali, chef di tendenza, libri di ricette, scuole di cucina, cru bordolesi piantati sul versante cino-himalayano e ambizioni di fare il “vino anche sulla luna”, come dichiarato da Michel Rolland, noi “scribi” di enogastronomia, tutti allievi, volenti o nolenti, per discendenza e consecutio temporis, di Gino Veronelli, quanto siamo rimasti fedeli a quell’atto di giudizio teso a distinguere il buono dal cattivo, se mai ne fossimo ancora in grado? Non si può rispondere a questa domanda, forse anche perché, di quegli allievi di cui Veronelli era orgoglioso, nessuno è riuscito a diventare veramente un maestro, giacché essere come lui implicherebbe oggi, un atto di coraggio e onestà intellettuale il cui sforzo potrebbe facilmente risultare sterile nel mondo fagocitante che ci ammanta. Veronelli ci insegna però che la cultura sarà la nostra salvezza e la grande eredità che ci lascia è la memoria del mandato, della consegna di cui ci ha fiduciosamente investito, ogni volta che scriviamo di cibo e di vino, ricordandoci almeno del principio secondo cui scrivere è un servizio al di là dello storytelling moderno. Veronelli fu un pioniere culturale la cui opera condiziona profondamente il nostro stile di vita, le nostre mode, le nostre passioni, il nostro tempo libero. Ma fu anche giornalista scomodo sia per i suoi contemporanei che per i posteri i quali spesso tendono a dimenticarne volontariamente il valore. La forma tiepida con la quale la maggioranza della stampa italiana ne annunciò la scomparsa ricorda vagamente il modo in cui i media usarono l’arma dell’indifferenza per vendicare la scomodità politica di un altro grande scrittore nel giorno della sua morte: Giovannino Guareschi. In merito a ciò, la Gazzetta di Parma, con indignazione, scrisse di un’“Italia meschina e vile”. Coraggioso e lodevole allora chi, nell’enogastronomia nostrale, mantenga in vita l’etica del Veronelli.
Luca Farinotti