Farinotti a Il Giornale: alla base della ristorazione dovrebbe esistere una forma di religiosità
Le scelte degli esercenti possono influenzare quelle dei produttori di cibo
di Redazione
La redazione di makemeitaly.it ripropone l’intervista rilasciata qualche tempo fa dal nostro food evangelist Luca Farinotti a Mimmo Di Marzio su Il Giornale.
Riteniamo estremamente attuali i contenuti di questa intervista, anche dopo la cessazione dell’emergenza pandemica.
Lo scrittore Luca Farinotti, già vincitore del Premio Selezione Bancarella per la Cucina 2019 con il saggio #Mondoristorante, nemico giurato delle catene e dell’industria alimentare, nel suo nuovo libro emblematicamente intitolato Reinstaurant (Ed. Reverdito) parla dell’emergenza coronavirus come di una grande, irripetibile occasione per i ristoratori italiani.
Farinotti, il settore è sull’orlo del baratro, è sicuro di quello che dice?
«Non ho dubbi. Vede, sono figlio anch’io di un ristoratore che, per inciso, è stato il primo a Parma a prendere la stella Michelin quando gli stellati si contavano sulle dita di due mani. Purtroppo oggi lui non c’è più, perché sei anni fa morì in un incidente su un trattore, però durante il primo lockdown mi è subito venuto in mente un suo insegnamento che ho trascritto anche nel mio libro: Nei periodi bui, usa il tempo per prepararti ai periodi luminosi. Preparati, migliorati, e resisti sognando…».
Che cosa dovrebbero fare i ristoratori con le sale semivuote a parte… sognare?
«Per loro è il momento giusto per ripensare completamente il lavoro, che è un mestiere particolarissimo perché si fonda, o almeno così dovrebbe, su una vocazione. Oggi i ristoratori italiani dovrebbero mettersi davanti a uno specchio per capire chi sono veramente ma soprattutto come si sono ridotti per colpa dell’omologazione al sistema. Questa crisi può avere un senso solo se si recuperano l’antica vocazione, la passione e quell’identità che c’era all’inizio ma che poi si è smarrita».
Vede un quadro così negativo?
«Vedo una bolla che si sta sgonfiando, ma non per colpa del Covid; la ristorazione era un settore in buona parte già in crisi e per molti la pandemia è diventata un alibi per alzare le braccia e dire: così non si può andare avanti e non si possono più saldare i debiti».
Parole forti, gli esercenti non le saranno grati…
«E invece a loro dico: chi crede davvero nel valore di questo mestiere adesso ha l’occasione buona per fare un bagno di umiltà e ricominciare da quei doveri etici che sono alla base del loro mandato. Un discorso, questo, che non vale per la pletora di imprenditori senza scrupoli che si sono improvvisati in questo mestiere pensando di speculare ai danni dei consumatori; e tralascio il capitolo dei locali nati per riciclare il denaro della mafia».
Parla della ristorazione come di una religione, come se non si trattasse di un’industria…
«Alla base di questo lavoro esiste una forma di religiosità che ha (o meglio dovrebbe avere) come primo comandamento: tratta il cliente tuo come te stesso, ovvero trattalo e fagli da mangiare come se a quel tavolo ci fossi seduto tu, come se fosse a casa sua».
E invece?
«E invece il rispetto del consumatore è andato, lui sì, a farsi friggere in nome di una ristorazione che si è uniformata verso il basso, tradendo quotidianamente la qualità dell’offerta per mera convenienza, per imitare le grandi catene, i cuochi-star e per compromessi con l’industria delle multinazionali alimentari».
In realtà dall’esterno l’impressione è diversa, la ristorazione sembra un mondo florido e creativo, con un corollario di fiere, guide gastronomiche, corsi di cucina, talent televisivi…
«Il fatto è che viviamo in un’epoca – e ciò non riguarda solo la ristorazione – dove la percezione della realtà conta più dei contenuti e dove i media fanno prevalentemente il gioco dello show-business. Il circo che lei ha descritto sta in piedi perché sostenuto e regolato dalle sponsorizzazioni. Sponsorizzati sono i programmi dei talent televisivi, sponsorizzati sono gli chef stellati, sponsorizzate sono le guide. E il risultato qual è?».
Qual è?
«Che anche i piccoli e medi ristoratori, anziché essere se stessi e credere in quello che fanno, si sforzano di imitare quei modelli entrando in una spirale di scorciatoie per mettersi in competizione con la concorrenza della ristorazione di catena caratterizzata da cibi surgelati, conservati e provenienti dall’industria; privi di etica e sostenibilità – lo dimostro nel libro – ma che il sistema riesce a far percepire alla massa dei consumatori come prodotti di qualità, artigianali, fatti come una volta».
Sta dicendo che il ristoratore ha perso la sua identità?
«Proprio così, in parte inconsapevolmente e in parte consapevolmente. Ma se si guarda indietro, si ricorderà com’era agli inizi quando ha cominciato a lavorare credendo nell’unicità del proprio progetto. Poi, un po’ per convenienza un po’ perché plagiato dai testimonial di determinati prodotti, ha iniziato a riempire il freezer proprio di quei prodotti, scendendo a una serie di compromessi che lo hanno spersonalizzato. È come quando, in amore, si tradisce per la prima volta. Poi è un’escalation».
Il sottotitolo del suo libro è «Decalogo pratico per una nuova ristorazione italiana». Cosa dice il decalogo?
«La prima regola è quella di riconnettersi con il cliente considerandolo il primo alleato e farlo davvero sentire a casa quando entra nel ristorante. Per cominciare il ristoratore dovrebbe buttare via il vecchio menù e riscriverne un altro che sia coerente con il proprio sentire, ma soprattutto, composto solo di ingredienti freschi, stagionali e di prossimità, frutto del rapporto con piccoli produttori di qualità, dimenticando i distributori di cibo industriale. I produttori che avrà selezionato nel proprio terroir dopo una ricerca seria, diventeranno anch’essi alleati di un progetto virtuoso, partner e non anonimi fornitori».
Come prosegue il suo decalogo?
«Io suggerisco al ristoratore di fare un elenco dei propri gusti, dei piatti che lo hanno emozionato prima ancora di fare questo mestiere; e ancora, un elenco delle preparazioni che gli riescono meglio e delle materie prime preferite. Poi dovrà farsi alcune domande, prima tra tutte perché ha scelto una determinata marca di prodotto rispetto ad un’altra: se la risposta sarà il risparmio economico e di tempo, o lo spirito di emulazione della concorrenza, anziché la ricerca del prodotto artigianale più sano e di prossimità, sarà l’inizio della rinascita. Rinascere è sempre un po’ come tornare bambini: si ricorda la commozione finale del critico del film Ratatouille? Rivede la mamma…».
Però in questi anni la stagionalità e i prodotti «a chilometro zero» sono diventati una bandiera di molti.
«A parole sì, ma nei fatti è ormai anche questa una moda. Quando parlo di materie prime locali intendo quelle fornite dai piccoli produttori che rispettano i cicli di vita di ortaggi e animali, cioè che lavorano in modo sostenibile. Ce ne sono, di bravi e seri ovunque, basta cercarli; significa anche cucinare la carne dove c’è la carne (possibilmente non proveniente da allevamenti intensivi) e il pesce dove c’è il pesce (non quello surgelato), cioè nelle località di mare. Magari privilegiando i pesci poveri o quelli d’acqua dolce».
Come fa il cliente a capire se c’è inganno?
«Quando un ristoratore propone ricette del territorio, bisognerebbe fare come Alessandro Borghese nel suo show televisivo, cioè chiedergli le fatture dei prodotti. Ci sarebbero molte sorprese. Il sottoscritto, prima di realizzare la Guida ufficiale Parma 2020 Best Restaurants & Food Producers, ha passato mattinate intere piazzato all’ingresso dei magazzini Metro. Non sa quanti ristoratori a chilometro zero ci ho incontrato…».
I ristoratori vanno alla Metro per risparmiare e perché ci trovano di tutto; a seguire la sua visione integralista, il rischio è di soccombere alla concorrenza…
«È vero il contrario. Un menu serio, fresco e stagionale può essere composto solo da pochi piatti, non più di tre primi e tre secondi in carta. Questo vuol dire evitare la montagna di sprechi che hanno in genere i ristoranti, per non dire di quelli stellati che buttano via quasi la metà della merce che acquistano. Un menu breve basato sulla spesa quotidiana e la riduzione degli sprechi è la principale fonte di recupero del fatturato. Essere originali e indipendenti senza seguire le mode è il modo migliore per non soccombere alla concorrenza omologata. Si è mai chiesto perché le trattorie che propongono pochi piatti stagionali sono sempre piene?».
Oggi, nell’era Covid, prevedere di riempire i locali pare un’utopia…
«Meglio: non potendo più prevedere gli ingressi e il fatturato del passato, i ristoratori possono finalmente fermarsi e pensare a menù ridotti freschi di giornata, senza l’ansia di dover prevedere il futuro».
Ma lei in un ristorante ci ha mai lavorato?
«Ne ho vissuto i riflessi fin da ragazzino, visto che il ristorante di mio padre, La Greppia, era a conduzione familiare. Cresciuto, ho scritto un trattato poetico intitolato La Cena dell’Uomo che, forse anticipando i tempi, era un inno alla cultura del terroir. Il grande Luigi Veronelli, che era amico di mio padre, lo lesse e mi incoraggiò, mi disse di insistere…».
Però gestire un ristorante è altra cosa dalla filosofia; si annega nella burocrazia, nella gestione dei dipendenti, le tasse, i controlli delle Asl…
«Sì, ma io ho forte il ricordo della passione di mio padre Augusto che si alzava all’alba e metteva al primo posto la ricerca, quella vera. Non sto parlando della tecnica e della tecnologia di cui oggi si abusa, ma della ricerca di materie prime e prodotti di eccellenza. Eravamo negli anni ’70 e se volevi un prodotto di alta qualità dovevi andare sul posto, viaggiare su e giù per l’Italia e anche all’estero. Ricordo quando da bambino lasciavamo Parma per andare per settimane intere nello Champagne a scovare cantine, o in Scozia per conoscere le distillerie. Ecco, un altro comandamento del mio decalogo per i ristoratori è: siate veri ricercatori dei prodotti del vostro menù, dalla pasta al sale, dall’olio al caffè. Andate di persona a conoscere i produttori locali e li farete alleati del vostro stesso progetto».
Oggi però la ristorazione italiana si trova a fare i conti con problemi più grandi, come il crollo del turismo…
«Il settore ha già subito e subirà molte perdite, ma mi augurerei che queste si concentrassero sulla ristorazione a basso costo, quella che inganna con branzini allevati surgelati e cotti al microonde, mentre il piccolo imprenditore appassionato deve cogliere l’occasione per affermarsi in una dimensione più autentica. Forse sarà la volta buona per liberarci di quei ristoranti fotocopia che affollano i nostri centri storici ingannando i turisti a caccia di italian food experience…».
Lei scrive che le guide gastronomiche sono sponsorizzate dalle multinazionali alimentari. Quali strumenti ha il consumatore per scegliere i ristoranti «etici»? Internet?
«Se intende siti come Tripadvisor, la risposta è no, perché parliamo di classifiche drogate e imbottite di fake, oltretutto prive di una precisa suddivisione in categorie, basate su algoritmi che possono suggerirvi come migliore ristorante in una città una… gelateria vegana. Conosco influencer che vendono ai ristoratori pacchetti di recensioni false. Quello che manca è un tipo di comunicazione veritiera che faccia coincidere la percezione alla qualità dell’offerta. Tranne rare eccezioni siamo ancora al passaparola».
Redazione
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